Fin dal secolo V d.C. le coste liguri, oltre a doversela vedere con le invasioni dei popoli provenienti dal continente, subiscono le incursioni dei pirati provenienti dal Mediterraneo Orientale: i “Turchi”, conosciuti in queste zone con il nome di “Saraceni”(1).
Vero è che a cominciare sono stati loro: le prime notizie di incursioni saracene sulle nostre coste ci vengono da Liutprando da Cremona, che racconta come i “Turchi”, forse in seguito ad un malaugurato naufragio, siano sbarcati a Saint Tropez nel 889.
Di scorrerie barbaresche si parla ancora in pieno XVIII secolo: oltre otto secoli durò quell'incubo che condizionò drammaticamente tutto il Ponente fatto oggetto di costanti, repentine incursioni da parte di quei feroci predoni.
Annidatisi a Frassineto (l'attuale La Garde Freinet), i “Turchi” si muovono lungo la costa sulle loro veloci feluche da cui sbarcano portando il terrore e la morte sulle Riviere fino alla stessa Genova, saccheggiata nel 934 dagli uomini di Safiam.
Dopo la morte di Carlo Magno (814), l'Impero Franco si è rapidamente disgregato nel frammentario e contradditorio sistema feudale che rende impossibile una risposta strategica a quelle scorrerie. Basti ricordare che il provenzale Ugo d'Arles, Re d'Italia, nel 936 assale sì Frassineto cingendola anche d'assedio; quando però, a capitolazione dei “Turchi” ormai imminente, viene a conoscenza delle mire al trono di Berengario d'Ivrea, non solo scioglie l'assedio, ma addirittura si allea con i Saraceni per averli a fianco contro il rivale.
Nel 972 comunque, il suo successore Guglielmo d'Arles conte di Provenza, padre di Aleramo, organizza con i conti Guido di Ventimiglia, Del Carretto di Finale e Grimaldi di Monaco una spedizione che stringe Frassineto in assedio da mare e da terra; la città viene finalmente conquistata ed i Saraceni definitivamente sgominati(2).
L'espugnazione di Frassineto non mette però fine alle scorrerie dei barbareschi, che riprenderanno più violente che mai dopo la presa di Costantinopoli (1453) e la proclamazione della “guerra santa” con la conseguente espansione ottomana in tutto il Mediterraneo: Europa e Paesi Arabi sono così ancora una volta allo scontro frontale che già vide protagoniste Roma e Cartagine e che, ancor oggi, si ripropone con tutti i suoi problemi.
Per tutto il Cinquecento i musulmani spadroneggiano sul mare dove aggrediscono e catturano ogni bastimento che incontrano; sulle nostre coste poi i “Turchi” agiscono sia con fulminee incursioni dal mare, sia con vere e proprie operazioni militari che comprendono assedi ed occupazione di territori, costringendo le popolazioni locali a rifugiarsi nell'entroterra.
È in questo periodo che sorgono gran parte delle torri di avvistamento (molte delle quali ancora oggi esistenti) che caratterizzano il ponente ligure: generalmente di forma tronco-conica, posizionate in luoghi strategici e visibili l'una con l'altra in modo da avvertire dell'invasione fin nelle vallate montane.
Per dare un'idea dell'entità del problema, basti ricordare che il feroce Kair-Ed-Din detto Barbarossa comanda una possente flotta di ben centocinquanta navi, dispone di quattordicimila uomini e stringe addirittura “l'empia alleanza” con il re di Francia Francesco I contro lo spagnolo Carlo V, acerrimo nemico dei Saraceni.
Fu in quei tempi veramente in gioco l'intera civiltà occidentale, sottoposta ad una pesantissima pressione che si allenterà significativamente solo dopo la battaglia di Lepanto (1571) che, con l'affondamento della flotta avversaria, segnò il trionfo delle armi cristiane(3) su quelle saracene.
Il "Turco" più tristemente noto per la sua ferocia fu Rais Thorgud, detto Dragùt, finalmente catturato nel 1540 da Andrea Doria, ma liberato dopo due mesi (le connivenze tra politici e delinquenti in libera uscita hanno origini antiche) in cambio della signoria ai Doria sull'isola di Tabarca (Bona, Tunisia).
Genova ha tutto l'interesse a tenersi buono Dragut: non solo perché ha sulle sponde d'Africa le proprie stazioni commerciali più redditizie, ma soprattutto perché con i suoi assedi ed occupazione di territori costringe le popolazioni locali a rifugiarsi nell'entroterra.
Anche i Saraceni, quindi, vengono buoni alla Superba impegnata a sviluppare il suo ruolo di Grande Potenza per far quattrini ingrassandosi a spese dei suoi fratelli più deboli: alle esigenze di difesa dei borghi della Riviera, Genova(4) risponde non già impegnando la sua potente flotta per debellare quel pericolo, ma anzi tollerandolo per poter agitare quello spauracchio farisaicamente, limitandosi ad esortare i rivieraschi alla vigilanza(5).
Il pericolo era poi acuito dalla presenza delle spie: non era infatti raro il caso di chi, a suo tempo catturato e ridotto schiavo, forte della propria conoscenza del territorio recuperava la libertà facendosi guida dei “Turchi” nelle loro scorrerie in Riviera (un'altra maniera per sfuggire allo status di schiavo era quella di “comprarsi” la libertà in quanto, dopo ogni razzia, il bottino conquistato veniva diviso in tre: un terzo all'armatore, un terzo al comandante ed il restante ad equipaggio e schiavi, che col tempo accumulavano abbastanza ricchezze per poter riscattare la loro libertà).
Tra i rinnegati, il più noto fu il sedicente Killig-Alì (la spada di Alì), in realtà calabrese Dionigi Galeni di Le Castella (Cosenza), catturato dai moreschi a sedici anni in quel di Napoli e convertitosi all'islamismo, rimasto famoso tanto per la sua abilità di navigante quanto per l'umanità con cui trattava i sequestrati(6).
In ogni caso, determinato da islamici originari o convertiti che fossero, l'incubo saraceno ha tormentato il Ponente fino agli inizi dell'Ottocento.
Il Ponente subì l'incubo dei “Turchi” su due fronti: in mare aperto - dove un'irresistibile vocazione spingeva le sue ardite vele - e sulla terraferma, mai sicura dagli improvvisi sbarchi di quei feroci predoni. In mare, le barche da pesca si muovevano riunite in flottiglia pronte a scambiarsi aiuto ed erano anche scortate da una feluca armata. Inevitabilmente però, sui banchi di pesca, la flottiglia si disperdeva ed il destino di ogni natante era così affidato alla buona sorte, alla valentia del suo capitano e soprattutto alla capacità di voga dei suoi rematori nello sfuggire alla caccia delle veloci feluche barbaresche(7).
Sulla terraferma, il terrore indotto dai “Turchi” è tale che i paesi sul litorale, troppo esposti, vengono abbandonati a favore di nuovi insediamenti interni, protetti da torri di avvistamento erette in riva al mare e dalla mura che cingono il borgo; ma invano il Ponente invoca una più decisa azione militare da parte di Genova(8) che, per tutto il Cinquecento, pattuglia l'enorme braccio di mare comprendente Mar Ligure e Tirreno con solo tre/quattro galee (di cui, fra l'altro, addebita i costi alle popolazioni rivierasche).
La sicurezza delle nostre coste sarà poi insidiata non solo dai “Turchi”: ricalcandone la ferocia, nel secolo XVIII non meno pericolosi saranno i Pirati Corsi(9).
Per limitare i danni, agli operatori marittimi non resta che organizzarsi in cooperative.
Per gestire le trattative con i “Turchi”, si costituisce anche un apposito ordine religioso, i Padri della Redenzione, che ha l'unico scopo di trattare in Algeri il riscatto dei rapiti.
Una vera e propria Rapimenti S.p.A. a forte partecipazione statale, insomma, e decisamente florida: nel solo Ponente Ligure furono complessivamente circa ventimila le persone rapite e vendute schiave in Algeri.
Fu re Carlo Felice a porre fine, nel 1825, alle invasioni saracene assaltando il porto e la flotta di Tripoli.
(1)Una premessa appare doverosa: se è più che giusto che qui da noi tanto sia esecrata la ferocia espressa dai “Turchi” nella loro “guerra santa”, bisognerebbe però anche andare a sentire cosa dicono loro delle crudeltà praticate da noi Cristiani nelle nostre non meno “sante” Crociate. Chi c’è stato di persona, come Goffredo da Buglione comandante della prima (1099) che colse di sorpresa gli islamici, scrive esultante al Papa che: “I nostri fanti e cavalieri si aprono a fatica la strada fra i cadaveri e le strade sono piene di mucchi di teste, di mani, di piedi. Nel Portico di Salomone e nel Tempio sono stati uccisi circa diecimila Saraceni e chi ci cammina ha i piedi immersi ben oltre la caviglia nel sangue di donne e uomini sgozzati...”.
E il Santo Padre, mandante di quel massacro come dei sette successivi, se ne compiace vivamente definendo quell’infame macello “...giusto ed ammirevole giudizio di Dio che volle che questo stesso luogo ricevesse il sangue di coloro che l’avevano per così lungo tempo profanato con le loro bestemmie”. Per premiare chi ha saputo così ben interpretare il messaggio di Cristo, nomina quel boia re dell’effimero Regno di Gerusalemme. Probabilmente le peggiori efferatezze, da noi battezzate “cose da Turchi”, si chiamano laggiù “cose da Cristiani”. - Raimondo D’Aglié in “Storia dei Franchi che presero Gerusalemme”.
(2)Ricorda L. A. Muratori che: “La gloria di aver schiantati i Saraceni da Frassineto è dovuta a Guglielmo conte di Provenza, padre di Aleramo e fratello di Corrado, re di Borgogna, che con un forte esercito li assalì e li sconfisse, liberando una volta da sì gran peso quelle contrade”. (Muratori, Annales, 972). Ma c’è anche chi sostiene che la realtà fu molto più sordida: la gloria della conquista di Frassineto pare debba attribuirsi non tanto al valore degli assedianti quanto al tradimento di un assediato, tale Aimone d’Algeri che, incarognito per l’esclusione dal suo bottino di guerra di una ragazza rapita cui teneva particolarmente, tradisce i suoi compagni e nottetempo apre le porte della città ai Cristiani (“cristiani” sui generis, naturalmente, visto il massacro che ne seguì).
(3)La flotta cristiana condotta da don Giovanni d’Austria (figlio naturale di Carlo V) costituita da oltre duecento galee, sei galeazze e trenta vascelli più piccoli, si scontrò all’imboccatura del golfo di Patrasso in Grecia (la battaglia avvenne all’altezza di Punta Scrofa, ma per evitare un nome tanto brutto viene convenzionalmente detta di Lépanto) con la flotta turca condotta da Alì Pascià forte di duecentotrenta galee e settanta galeotte, determinando in quattro ore di combattimento settemilacinquecento morti e ventimila feriti fra i cristiani, e ben trentamila fra morti e feriti tra i Turchi. Genova copriva l’ala destra dello schieramento con cinquantatré galee al comando di Giovanni Andrea Doria, nipote di Andrea.
(4)La pressione fiscale di Genova sul Ponente fu tanto pesante da indurre la città di Porto Maurizio a dedicare addirittura una lapide - tuttora murata sulla parete esterna dell’oratorio di S. Pietro al Parasio - ad imperitura memoria dell’uomo che finalmente riuscì a farle abrogare: “Viva del buon Garibbo il chiaro nome - che al suo paese le franchigie ottenne - e di gabelle gli sgravò le some” recita lo storico marmo.
(5)Citiamo per tutte la lettera del 9 giugno 1612: dal Palazzo Ducale di Genova la Repubblica avverte il Podestà di Cervo, Giò Mestura, che: “... in Corsica vi sono dieci vascelli de’Turchi corsali”; ma anzichè mandare la sua potente flotta ad annientarli, Genova si limita a raccomandare ai cervesi “di far diligenti guardie per non essere colti all’improvviso” (Archivio Comunale di Cervo, filza 1612 Act. Civil.).
(6)Ma soprattutto noto per il boccaccesco episodio di cui fu protagonista il 21 agosto 1563 a Villafranca dove, catturati una trentina di soldati di Emanuele Filiberto di Savoia in quei giorni a Nizza, ne tratta immediatamente il rilascio col Duca chiedendo come prezzo del riscatto una notte d’amore con la Duchessa. A nulla vale discutere, e alla fine è la Duchessa in persona a dover sottoscrivere, tra rossori e svenimenti, l’imbarazzante contratto col focoso calabrese: le sue grazie per la testa di trenta uomini. Le pudibonde cronache dell’epoca assicurano che in realtà alla bisogna si presterà poi eroicamente una dama di corte meritando così il cavalierato al proprio ignaro consorte; sta comunque di fatto che, dama o Duchessa che fosse, la donna che passò quell’indimenticabile notte nel letto di Alì se la cavò tanto egregiamente da ottenere il mattino dopo l’immediata liberazione di tutti gli ostaggi.
(7)Un documento del 1646 vivacemente racconta che: “Li XXIII del presente mese se trovò nella medesima fuga con la altre fregatte a la isola de S. Antioco e S. Pietro et hivi allo spuntar del sole fue comparse due galere de infideli che diedono la cachia e per un poco se agiutò per quanto per scampar la vitta e la robba, ma vedendo che le galere si appressavansi discontro, con Padron Francesco Sicardo mentre stavamo nel medesimo luogo da quanto detto Albavera al Siccardo vedesi che siamo appressati doviamo far barca armata assieme e così gli respose il Siccardo, salite sopra il mio vascello con i vostri marinari e remi, e così in quel tumulto et paura che potè essere il primo andare in barca viando senza altro pensamento di salvare robba pensando solo alla vitta”. A partire dal 1678 le coralline dovevano essere armate: “Dovendo uscire le coralline di codesto luogo alla solita pesca de’coralli incaricherete i patroni e marinari di esse di andare sempre uniti nel viaggio e che vadano armati almeno di cinque focili e quattro spontoni (lance) per ogni corallina”. (Durante-Defferrari, “Pescatori di corallo”, Imperia).
(8)Fra l’altro Giovanni Andrea Doria (nipote del celebre Andrea) non brillò certo per eroismo nella decisiva battaglia di Lepanto (1571) che stroncò la flotta turca: dodici delle cinquantatrè galee genovesi al suo comando erano di sua proprietà privata, e non appena il rinnegato Ucciali iniziò la manovra di attacco saracena, il Doria “voltò le sue galere e salvò la sua flotta privata, facendo così la fortuna della sua famiglia”, ci riferisce lo storico Giorgio Doria Montaldeo, docente di storia all’Università di Genova. Nel vuoto lasciato dal Doria si precipitarono tre galee saracene che abbordarono la “Piemontesa” facendo strage dell’aristocrazia sabauda che la difendeva; le navi di Malta giunsero in soccorso quando ormai a bordo erano rimasti vivi solo in dodici tra cui don Francesco di Savoia ferito al volto.
(9)Un documento del 31 luglio 1761 parla di:”... violenza e rapine che si commettono in mare dalli armamenti de’- Ribelli Corsi i quali hanno la temerarietà di avvicinarsi persino alle nostre Riviere ad attentare contro i bastimenti di Nostra Riviera e contro la navigazione de’nostri Cittadini e Nazionali”. Ed un altro documento del 1768 riporta: “Essendoci rinvenuta notizia che si trovino in mare la mezza Galea, due filuconi et uno scapavia corsi e che li stessi possono essere destinati per fare sbarco e rubbare e prendere gente delle Riviere...” (Durante-Defferrari, “Pescatori di corallo”, Imperia).